il 10 maggio 2016 la villa si apre ufficialmente alla cittadinanza: dal 1994, anno del sequestro, era rimasta chiusa e abbandonata nella sua incompiutezza (i lavori di ristrutturazione erano stati interrotti dall’intervento giudiziario) e nessuno aveva potuto più accedervi. Per Salvaterra è un momento importante che accende interesse e suscita sensazioni; per il territorio, e non solo quello circostante, è l’evocazione di significati e valori importanti.
La presenza di don Luigi Ciotti, che ha voluto marcare la circostanza con la sua presenza, è certamente un richiamo ed un invito e l’affluenza risulta straordinaria, lo spazio fatica a contenere un pubblico numeroso e vario; autorità di pubblica sicurezza, rappresentanze militari e istituzionali sottolineano il significato morale e civile del riappropriarsi di un bene sottratto alla criminalità.
La villa è bella, signorile ed elegante nella sobrietà architettonica della facciata, luminoso e accogliente nella spaziosità del salone che si apre sul terreno che fiancheggia l’edificio, quel terreno che ha ispirato la progettualità che ha riunito i sette “protagonisti”, con le loro diverse finalità convergenti in una stessa visione, tese a far sviluppare una realtà di socializzazione, formazione, di cultura e di confronto e attività di vario sapore.
IL BENE CONFISCATO A SALVATERRA
La villa viene edificata nel XVIII secolo. Lo stile architettonico è guidato da un gusto lineare, raffinato, razionale. Ecco quindi l’allargamento alla base delle murature principali, la sagoma perfettamente simmetrica del fabbricato, guidata dai due elementi verticali dei camini, e dal frontone superiore, triangolare. La disposizione interna dettata da funzionalità e razionalità, vede al piano terreno i locali nobili della zona giorno, al piano 1° la zona notte, mentre al 2° piano le ampie soffitte fungono da magazzini/disbrighi.
Il catasto austriaco del 1875 riporta l’ampliamento della costruzione, con l’aggiunta di un corpo a sinistra adibito a servizi ed annessi, e la divisione della villa in due unità.
Le nuove canapine catastali ai fabbricati (italiane, datate 1910 circa) riportano già la situazione attuale, sia per la disposizione della casa con gli ulteriori annessi paralleli alla strada, che per la divisione dei terreni.
I primi registri ipotecari che citano i beni in oggetto censuario di Salvaterra (Archivio di Stato – c17 pag. 121) sono del 1845: la proprietà risultava di Casarotti Valentino fu Bellino. In data 23 giugno 1846 il bene è venduto alla società Norsa di Norsa Giuseppe. Poi in data 30 settembre 1854 il bene è venduto a Rossato Felice fu Pietro + fratelli che dividono il terreno in due parti di eguale superficie, dividendo nel contempo anche la casa: quella a sud/ovest sarà quella oggetto di confisca; quella a nord/est seguirà altre strade.
Nel 1857 vengono affittati i terreni per trent’anni a favore del Conte Marsit D’Espagnac Carlo Amabile (che gestiva la maggior parte dei beni della Vangadizza).
Metà della proprietà nel 1857 passa in capo a Rossato Luigi. E nel 1874 passerà a Casarotti Bellino. Il 24 agosto 1866 l’altra metà del terreno è venduto a Valente Angelo fu Gaetano. La famiglia Valente terrà la proprietà della casa per oltre 120 anni.
Nel 1874 muore il Conte D’Espagnac, e l’affitto passa in eredità alle due figlie. Nel 1891 Casarotti Bellino vende a Boldrin Margherita, Casarotti Filippo e consorte, che nel 1893 cedono a Valente Angelo fu Gaetano, che quindi torna a riunire i due terreni, che erano stati divisi nel 1854.
L’intera proprietà del bene (terreni e casa) passa per successione di Valente Angelo fu Gaetano del 04 gennaio 1894 ai figli Valente Gaetano e Maria. Il 14 ottobre 1908 i fratelli si dividono l’eredità con atto di divisione per cui a Gaetano spettano gli immobili, a Maria i capitali liquidi disponibili.
Nel 1915 viene cancellato l’affitto a favore delle figlie del conte Marsit D’Espagnac Carlo Amabile.
Il 26 agosto 1928 Valente Gaetano muore lasciando in successione alla sorella Maria gli immobili; a fine 1959 muore Valente Maria, ed i beni passano alle 3 figlie Crocco Olga, Annamaria e Luigina. Il 30 ottobre 1973 Crocco Annamaria cede la sua quota di 1/3 ad Olga. La proprietà è quindi per 2/3 in capo a Crocco Olga, 1/3 a Crocco Luigina; il 1° novembre 1977 muore Crocco Luigina, e le nuove quote di proprietà diventano pari a 5/6 per Crocco Olga e 1/6 per Crocco Annamaria; il 27 settembre 1978 Crocco Annamaria vende la sua quota a Schiavo Alberto (quota 1/6) mentre Crocco Olga mantiene quota 5/6. Il 05 ottobre 1984 muore Schiavo Alberto. Per successione la sua quota passa alla figlia Schiavo Valeria. L’11 ottobre 1988 Schiavo Valeria e Crocco Olga vendono la piena proprietà intera a Ravagnani Anna.
Alla casa non sono legate proprietà terriere. Il piccolo appezzamento in fianco può aver costituito l’orto che forniva la verdura e ortaggi nei mesi caldi, dato che la casa risultava adibita a residenza estiva, quale casa di campagna di signori ferraresi, che la utilizzavano solo nei mesi caldi. Gente signorile, discreta ma non schiva, che apprezzava la vita ed il clima, non solo meteorologico, di Salvaterra, pur non immischiandosi mai negli affari e nelle attività personali degli abitanti. “gente bona”, dicono i vicini “ i vegnéa da Ferara tuti i ani, coi fioi. Siori, ma no te ga mai sentìo nesun discorso su de lori…”.
La nuova stagione della villa inizia l’11 ottobre 1988 quando le proprietarie Schiavo Valeria e Crocco Olga vendono la piena proprietà a Ravagnani Anna. La sig.ra Ravagnani, che è moglie di Ferrari Francesco, il 27 settembre 1995 dona il bene alla figlia Alessandra, probabilmente annusando già odore di sequestro e di azioni giudiziarie nei confronti del marito che si concretizzano il 12 dicembre 1995 ed il Procuratore della Repubblica di Verona richiede l’applicazione di misure di prevenzione ed il sequestro dei beni, che avviene il 29 dicembre 1995 dal Presidente del Tribunale sezione Penale di Verona.
Vale la pena conoscere le motivazioni che hanno fatto attivare le procedure in oggetto:
… Ferrari Francesco deve ritenersi persona dedita in modo stabile all’importazione, detenzione e vendita di notevoli quantitativi di sostanze stupefacenti, che i precedenti penali e giudiziali nonché la pessima condotta di vita del soggetto autorizzano la formulazione di un giudizio di pericolosità sociale nei confronti del Ferrari; che il predetto, proprio grazie all’attività criminosa svolta si è assicurato la disponibilità di un cospicuo patrimonio, in parte intestato anche alla moglie Ravagnani Anna, alla figlia Alessandra, nonché al cognato Ravagnani Gaetano, patrimonio certamente sproporzionato al reddito dichiarato e alla propria attività economica …
Con Ordinanza definitiva del 27 marzo 2003 la Corte di Cassazione ordina la confisca dei beni: il Comune di Badia Polesine (RO) con nota del 12 novembre 2003 si rende disponibile all’acquisizione del cespite al patrimonio indisponibile del Comune, per cui il 18 novembre 2003 il Prefetto di Rovigo rilascia parere favorevole a tale passaggio per l’utilizzo a favore delle associazioni di volontariato operanti sul territorio comunale. In data 27 aprile 2004 si redige verbale di accertamento di consistenza del bene, e contestuale consegna al Comune di Badia Polesine (RO).
… L’edificio ha configurazione planimetrica ad “L”: un’ala prospetta la strada pubblica mentre l’altra (più lunga) si affaccia sul cortile interno di pertinenza; sul retro del fabbricato ad ovest si sviluppa la rimanente consistenza scoperta del terreno compreso in parte in zona edificabile per completamento edilizio. Il fabbricato si sviluppa parte su due e parte su tre piani fuori terra, con altezze in gronda comprese fra i 6,00 e gli 8,00 m; risulta ristrutturato negli elementi portanti principali (solai, murature perimetrali e di spina, e coperto) ma non è stata completata la realizzazione delle scale di collegamento. Nel complesso l’attuale stato della costruzione può essere definito “al grezzo”. Il progetto di ristrutturazione prevede la realizzazione di un’unica abitazione con relative pertinenze, ma appare agevolmente possibile un’eventuale riconversione per utilizzi diversi. Sulla scorta degli elementi geometrici rilevati anche dalle planimetrie di progetto, la superficie lorda complessiva del fabbricato è pari a circa mq 520; il cortile di pertinenza è pari a mq 450”.
Dalle foto scattate all’epoca le piante maestose presenti oggi nel cortile risultavano ben più contenute come sviluppo. Il tono generale del fabbricato risultava dimesso, specie per il corpo aggiunto. La casa si presenta in buono stato, ma necessita di interventi decisi per tornare ad uno stato più consono, per cui nel maggio 1989 segue regolare concessione edilizia n. 109 per intervento di ristrutturazione.
Nella relazione allegata al progetto di ristrutturazione edilizia il progettista indica l’assenza di fondazioni, murature interne impregnate di umidità; i muri perimetrali sono staticamente sufficienti, ma bisognosi di apporti tecnici quali sottofondazioni e taglio contro la risalita di umidità. I solai presenti, in legno ormai fatiscenti a causa delle infiltrazioni e degli agenti atmosferici risultano non idonee per sezione e forma ad un recupero architettonico razionale. Il tetto invece ha strutture il legno recuperabili sia per costruzione che per destinazione; serramenti e pavimenti sono da sostituire. Si prevede il mantenimento integrale delle murature esterne, la sostituzione dei solai in legno, il rifacimento di tutti gli intonaci, la conservazione integrale della struttura del coperto con aggiunta di idonea coibentazione sottocoppo, la sostituzione di serramenti e scuri.
I locali si presentano ampi, regolari a tutti i piani. Gli spazi disponibili sono funzionali e ben distribuiti, e tale disposizione viene correttamente mantenuta dal progettista incaricato, che mantiene inalterate le caratteristiche proprie dell’edificio, prevedendone il riutilizzo a seguito del pieno recupero strutturale, dando quindi la speranza di un nuovo lungo periodo di vita al fabbricato.
IL FUTURO
Negli atti formalizzati nel periodo 1995/2005 si legge che “il Prefetto di Rovigo con nota in data 18.11.2003 ha espresso parere favorevole in merito all’utilizzazione del cespite da parte del Comune di Badia Polesine (RO) per sede di organizzazioni di volontariato e che il Sindaco del Comune di Badia Polesine (RO) con nota prot. n. 1773 del 12 novembre 2003 specificando la piena disponibilità all’acquisizione del cespite di cui trattasi al patrimonio indisponibile del Comune medesimo e all’assunzione a carico del bilancio comunale degli oneri finanziari correnti per dare funzionalità a parte dell’immobile in questione…”.
“il Direttore della filiale di Verona dell’Agenzia del Demanio che ha sentito l’Amministratore dei beni confiscati, ha proposto di trasferire il compendio immobiliare in argomento al patrimonio indisponibile del Comune di Badia Polesine per finalità sociali, in particolare per essere utilizzato come sede delle numerose associazioni di volontariato operanti nel territorio.
Dopo aver ricevuto il trasferimento del cespite, la Giunta Comunale con delibera n. 133 del 20 ottobre 2004 prese in carico il bene nel quadro del patrimonio indisponibile del Comune, dopodiché il Comune di Badia Polesine si attivò per rendere fruibile il bene. A seguito di rilievi specifici ed analisi puntuali l’Ufficio tecnico Comunale nel settembre 2005 predispose un progetto esecutivo per “la ristrutturazione di un edificio da adibire a sede permanente di centri di servizi culturali e dell’associazionismo sito nella frazione di Salvaterra” che con delibera di Giunta Comunale del 28 settembre 2005 veniva approvato per un importo complessivo di € 700.000,00. Il progetto prevedeva delle felici soluzioni per il riuso dell’immobile, con adattamento funzionale dei locali nel pieno rispetto dell’architettura e del carattere dell’immobile ricavandone le sedi delle associazioni socio-culturali presenti nel territorio, oltre ad una sala comune multiuso per convegni, conferenze, corsi ed un servizio cucina per organizzazione di momenti conviviali. Nella relazione illustrativa si citano le 29 associazioni operanti all’epoca sul territorio, evidenziando come il Comune si sia prefissato, con l’iniziativa, di rivalutare il territorio ed in particolare la vita sociale delle frazioni.
I problemi più gravi e rilevanti sono stati di ordine economico-finanziario.
Il progetto predisposto dall’Ufficio Tecnico Comunale di Badia Polesine nel settembre 2005 portava ad un costo (per le sole opere edili) di circa € 340.000 sommando i costi previsti per gli impianti la cifra saliva ad € 700.000; la relativa richiesta di contributo regionale non ha mai avuto alcun riscontro. Gli oneri, le spese in diretta amministrazione e gli aumenti subiti dal 2005 ad oggi portano l’aggiornamento del costo totale previsto per l’intervento ad oltre € 900.000. Considerando gli ulteriori costi per la sistemazione dell’area esterna il costo complessivo per rendere fruibile l’immobile si aggirava quindi sull’ordine di 1 milione di €uro.
Nemmeno l’ipotesi di eseguire i lavori per stralci funzionali successivi (ad es. un piano alla volta) ha trovato attuazione operativa per mancanza di fondi.
A questo punto si è iniziato a lavorare con un Gruppo di Lavoro, gestito dall’associazione LIBERA – Coordinamento Provinciale di Rovigo – sul bene confiscato per capire cosa si poteva fare. La prima difficoltà è stato l’annullamento della delibera comunale di rinuncia al bene confiscato con restituzione dello stesso allo Stato, in quanto il Comune stesso non era in grado, dopo l’esito negativo da parte della Regione Veneto ad avere un finanziamento per la ristrutturazione del bene, e mettere a disposizione lo stesso alla società civile attraverso un progetto di ristrutturazione e poi la seguente assegnazione.
Il 7 aprile 2018 la Casa della Cultura e della Legalità è stata intitolato all’appuntato Silvano Franzolin di Pettorazza Grimani (unica vittima polesana della mafia).
E’ l’estate del 1982, quella che i più ricordano con piacere per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio, ma è anche quella in cui il Paese si trova ad affrontare una partita ben più importante: quella contro la “mattanza” di Palermo. È l’estate del prefetto dei cento giorni, è un’estate sanguinosa, la più sanguinosa di sempre, iniziata il 30 aprile con l’assassinio di Pio La Torre, segretario regionale del Pci, e del suo agente di scorta Rosario Di Salvo.
La Torre aveva presentato un disegno di legge che introduceva per la prima volta il reato penale di appartenenza ad un’associazione di stampo mafioso e che andava a toccare l’aspetto patrimoniale con il sequestro dei beni. Fino a quel momento i delitti di mafia rientravano nel più generico art.416 del codice penale “associazione per delinquere”; troppo generico per un fenomeno vasto e complesso come quello mafioso.
La Torre e Di Salvo segnano l’inizio di quella estate.
Partita da Enna alle 8 del mattino del 16 giugno, la Mercedes guidata da Giuseppe Di Lavore, sfreccia veloce verso Trapani; Giuseppe non dovrebbe trovarsi alla guida dell’auto, ma all’ultimo sostituisce il padre, come lui autista della ditta che ha in appalto il trasporto dei detenuti. Si trovano a bordo anche l’appuntato Silvano Franzolin, i due carabinieri Salvatore Raiti e Luigi Di Barca e il detenuto Alfio Ferlito, personaggio di spicco della mafia catanese, condannato a sette anni di reclusione per traffico di droga. Ed è proprio per tradurre il Ferlito a Trapani, che la Mercedes sfreccia lungo la circonvallazione palermitana: la destinazione è una casa penale più sicura ora che egli è diventato un uomo cosiddetto “segnato” all’interno degli ambienti mafiosi; quegli ambienti dai quali il padre aveva tentato di tenerlo lontano facendolo anche costituire.
Sono le 10 e 30 quando lungo la circonvallazione sopraggiungono una Bmw e un’Alfetta 2000: sono lì per la Mercedes, sono lì per Ferlito. Aprono un fuoco sicuro, aggressivo, spietato, intenso: Di Lavore, Raiti, Di Barca e Ferlito muoiono all’istante, mentre la loro auto termina la sua ultima corsa contro la 500 della giovane Nunzia Pecorella, rimasta ferita ma salva. Franzolin, seduto sul sedile posteriore, riesce ad aprire lo sportello; esce impugnando la pistola nel tentativo di rispondere al fuoco, ma solo pochi passi e si accascia in una pozza di sangue.
Finisce così la sua giovane esistenza iniziata il 3 aprile del 1941 a Pettorazza, uno dei tanti piccoli comuni a vocazione rurale del Polesine: lì ancora oggi lo ricordano come un ragazzo sempre sorridente, simpatico, amante della compagnia. Silvano è un bracciante agricolo con la 5^ elementare – per l’epoca un buon grado d’istruzione – quando il 18 novembre del 1959 si arruola nell’Arma dei Carabinieri presso la Scuola Allievi Carabinieri di Torino.
Per lui è una grande passione: solo pochi mesi dopo, passa alla Legione Allievi Carabinieri di Roma per perfezionarsi nell’equitazione ed entrare nell’arma a cavallo: sarà però un infortunio a porre fine a questo sogno. Intanto, il primo settembre del 1960, è promosso carabiniere. Inizia la carriera prestando servizio a Brescia per poi venire inviato in Sicilia dove tocca un po’ tutte le province e soprattutto Enna; lì incontra l’amore, Gaetana Camerino, un amore che avrà presto altri due nomi: Fabio e Maura.
Ma il legame con Pettorazza non è reciso e non appena ha un permesso vi fa ritorno. Il primo settembre del 1974 raggiunge il grado di appuntato. La carriera avanza e la vita scorre, almeno fino alle 10 e 30 di quel 16 giugno, mentre a casa Fabio di 10 anni e Maura di 5 stanno aspettando il loro papà; un papà che non tornerà più, steso in una pozza di sangue sotto gli occhi lucidi del generale Dalla Chiesa che cerca un lenzuolo per coprire i corpi di quei poveri ragazzi; il prefetto dei cento giorni è il primo ad accorrere, è in borghese, non ha la divisa né i suoi uomini. È solo e sa che è questione di tempo e arriverà il suo turno.
Ma intanto è quello del ventisettenne Giuseppe Di Lavore, del diciannovenne Salvatore Raiti e di Luigi Di Barca, 25 anni, sposato da uno, la moglie incinta della loro primogenita. È quello di Silvano. Poche centinaia di metri più avanti, la Bmw e l’Alfetta 2000 vengono abbandonate e date alle fiamme. Sul posto, invece, la scientifica rileva 6 bossoli di cartucce a lupara e 60 di Kalashnikov, arma utilizzata dall’81 all’83, anno in cui verranno “inaugurate” le autobombe comandate a distanza con il giudice Rocco Chinnici e la sua scorta. Oltre al prefetto, accorrono il Generale Comandante la brigata carabinieri, il colonnello Comandante della legione, il questore, il procuratore capo della Repubblica, magistrati, carabinieri, Guardia di Finanza, funzionari e agenti della mobile e della Criminalpol. La matrice catanese è da subito evidente, come anche l’obiettivo: Alfio Ferlito. Ci vorranno venti anni per dare un nome agli assassini e al mandante, Totò Riina, che fece un favore al suo alleato Nitto Santapaola, rivale del Ferlito. Manca ancora, però, il nome della talpa, il nome di chi sapeva che quel giorno sarebbe avvenuto il trasferimento.
Ancora 79 giorni e il 3 settembre anche il generale Dalla Chiesa sarebbe stato ucciso nello stesso modo, con la moglie e l’agente di scorta: in auto, sotto un fuoco sicuro, aggressivo, spietato, intenso. Alla domanda “Cos’è la mafia?” postagli da uno studente poco tempo prima, il prefetto aveva risposto: “Un modo di essere, di gestire la propria persona in mezzo agli altri. Io credo ancora che esistano valori soprattutto perché noi siamo uomini e non numeri. Bisogna respingere qualsiasi forma di corruzione perché è su questa che si alimenta la mafia e il vostro condizionamento”.
Finiva così l’estate del 1982, con una vittoria ai mondiali di calcio e un tributo altissimo di sangue; un tributo che non fu però una sconfitta: se oggi siamo qui, in questa villa, è per l’eredità che ci è stata lasciata dalle loro vite, è per la legge Rognoni-La Torre del 13 settembre di quella estate, è per un pool di uomini virtuosi, Rocco Chinnici, Antonio Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino che portarono a processo 470 imputati, pagando a caro prezzo il loro impegno. Siamo qui per le donne che hanno scelto di stare accanto a questi uomini con la consapevolezza del rischio della perdita del loro compagno o della loro stessa vita. Siamo qui per tutte le persone che con la divisa, con abiti civili, con abiti talari hanno scelto di dire basta.
Tanto è stato fatto, tanto resta da fare ma gli esempi a cui ispirarsi ci sono: come Silvano, che sì, è morto nell’adempimento del proprio dovere ma nella virtù di una scelta coraggiosa.